11. La Roggia dei Mulini: il percorso
Premessa: Lozzo, pur avendo una offerta
turistica piuttosto articolata, desidera farsi ricordare dai propri
ospiti, preferenzialmente, come il “paese dei Mulini e
degli Antichi Sentieri”; il percorso che qui proponiamo
permette di visitare il nucleo principale degli opifici a forza
idraulica che, nel loro insieme, costituiscono uno degli esempi più
interessanti di archeologia industriale presente sull’intero
territorio cadorino. Questo agile pieghevole affianca una più
articolata pubblicazione bilingue, edita dalla Comunità Montana
Centro Cadore, artefice del progetto comunitario Raffaello,
disponibile su richiesta.
Ricordiamo poi che da diversi anni il Museo
della Latteria organizza, nella mattinata dei sabati di
luglio ed agosto, una visita guidata alla Roggia dei Mulini ed al
museo stesso, occasioni queste in cui, oltre alla presenza di Leo
Baldovin che illustra le caratteristiche dei vari opifici
idraulici, in particolare il gioiello di archeologia industriale
rappresentato dalla sua ormai mitica centrale idroelettrica, si può
accedere agli interni degli opifici stessi, preclusi per il resto
della settimana.
Dalla piazza alla filanda ...: da piazza IV
Novembre, percorrendo via P. Marino per un centinaio di metri, si
giunge nella piazza P. F. Calvi (Piaza Vècia), in cima alla
Riva del Paveón, di grande importanza perché la nostra gente
usava incontrarsi in questo luogo per discutere insieme dei problemi
del paese. Affianchiamo una delle tante fontane di Lozzo,
fondamentali per la vita dei paesani, che prima degli anni 30, non
avendo ancora l’acqua corrente nelle loro abitazioni, dovevano
prelevarla dalla fontane nella proprie borgate per poi utilizzarla
nella diverse faccende quotidiane. Questa era perciò una zona viva
resa attiva, allegra e movimentata dalle chiacchiere delle donne, che
coglievano l’occasione per scambiarsi quattro parole condividendo
le proprie esperienze, e dai bambini che giocavano spensierati nei
dintorni.
L
a
fontana, di forma ottagonale, costituita da un pilastro centrale che
sorregge un vaso con coperchio, decorato con quattro mascheroni dai
quali fuoriesce l’acqua, risale al 1846. E’ doveroso soffermarsi
sull’etimologia del nome di Lozzo, anche se gli studiosi sono
ancora discordi e non è tutt’ora possibile affermare con certezza
quale delle seguenti sia l’ipotesi corretta. Giuseppe Ciani, per
esempio, ritiene che il termine derivi da “Lucius”, «prenome»
di un Romano, o centurione o tribuno dei soldati o procuratore del
principe, che stabilì la sua dimora sul colle sopra il borgo (Revis)
dove, ancora al tempo dello storico, si vedevano i ruderi di una
torre. Altri vedono nel nome la stessa radice della parola «luce»,
riferendosi ad alcuni segnali luminosi che venivano effettuati in
particolari zone della vallata, come segno d’allarme, nel momento
in cui arrivavano gli invasori. Invece Antonio Ronzon attribuisce al
nome di Lozzo la stessa etimologia di Lutetia (l’odierna Parigi),
dichiarando che deriva da «luteum», che significa luogo paludoso,
ipotesi che sembrerebbe appropiata perché ancora oggi, l’area
corrispondente alla piazza principale si chiama Laguna, forse per la
presenza, in passato, di un lago (alimentato dal Rio Rin).
Non viene neppure esclusa una quarta possibilità :
che Lozzo derivi da «lucus», cioè bosco. Si può notare poi, pochi
passi più avanti sulla destra, la vecchia infermeria militare (n°
civico 354), utilizzata durante la prima guerra mondiale, che
nonostante il passare degli anni è rimasta tale e quale ad allora
(da osservare in particolare le inferiate). Si oltrepassa quindi via
A. Monti giungendo di fronte ad un’abitazione recentemente
restaurata (civico 360) che un tempo possedeva all’esterno una
ruota lignea la quale, sfruttando la forza idraulica, consentiva il
funzionamento della fucina “Marin”, posta al piano terra
dell’edificio. Bisogna infatti dire che Lozzo fu da sempre un paese
ricco d’attività artigianali, la gran parte delle quali
s’insediarono lungo il corso del Rio Rin proprio per sfruttare
l’acqua come fonte d’energia (grazie ad una roggia che partiva
dal luogo chiamato dei Crépe Ros); infatti, come risulta
dalle “Anagrafi Venete” del 1766, a Lozzo si contavano: dieci
ruote da mulino da grani, una sega da legname, un follo da panni di
lana, sedici “telari” da tela e cinque mole. In seguito, agli
inizi del 1900 vennero realizzate anche una fucina e una bottega da
fabbro.
C
ontinuando
il percorso della “Roggia dei Mulini” si giunge
ad un primo grande pannello informativo; a destra si osserva il
lanificio dei fratelli Zanella, conosciuto anche
come filanda de Mariana dela lana (grande casermone grigio,
piccolo pannello informativo). L’edificio venne costruito alla fine
della seconda guerra mondiale per trasferirvi l’attività a
conduzione familiare, che cessò nel 1958 circa, poco dopo la morte
di Giuseppe Zanella; durante il conflitto invece, i fratelli presero
in affitto il secondo piano dello stabile adibito a segheria di
proprietà della famiglia Baldovin Carulli. L’ex filanda
trasformava la lana grezza, appena tosata, in lana filata, la quale
aveva soprattutto un uso domestico e si limitava ad un commercio
locale.
Subito dopo il momento della consegna la lana
grezza veniva pesata, in modo da determinare immediatamente il
corrispettivo quantitativo di filato ed il compenso della
lavorazione; nel seminterrato, invece, si trovava il deposito della
lana grezza, che veniva smistata per ottenere i tre colori utilizzati
prevalentemente: il nero, il grigio ed il bianco. Inizialmente erano
le donne a portare qui il prodotto giungendo anche da Forni e Sauris
(Carnia); generalmente, arrivavano la mattina presto e aspettavano
con pazienza tutto il tempo della lavorazione per poi tornare a casa
con il filato; soltanto in seguito il signor Giuseppe ritirava e
riconsegnava di persona la lana ai fornitori. In questa zona inoltre
si potevano trovare molte stalle proprio per la presenza dell’acqua,
che veniva attinta per abbeverare gli animali allevati.
L
’area
dei mulini ...: risalendo il largo viottolo, accompagnati dallo
scorrere dell’acqua del Rio Rin, si incontra dapprima l’albero di
trasmissione in metallo che sosteneva la ruota della fucina “Marin”
e successivamente la cascatella creata dalle acque in uscita dalla
roggia, giungendo in breve alla grande ruota lignea, verticale, a
cassetta, del mulino “Da Pra-Calligaro” (civico
539) con il sistema a caduta “per di sopra”. Questa sfrutta il
peso dell’acqua che cade dall’alto sopra le pale sagomate a
cassetta, non solo imprimendo forza in ragione della sua velocità di
impatto, ma anche accompagnando per gravità la ruota per parte della
sua circonferenza; per questo motivo ha un più alto rendimento
rispetto a quella del tipo “per di sotto”, è adatta per grandi
salti e non richiede un’abbondante quantità d’acqua,
l’importante è che sia ben diretta e convogliata.
U
n
tempo l’acqua cadeva sulle due ruote esterne all’edificio per
mezzo di una roggia lignea e di un salto di 5 metri circa azionando i
mulini di proprietà Baldovin Gaspare e Baldovin
Giovanni; successivamente venne aggiunto anche un piccolo
locale che ospitò una fucina nella parte più a valle del
fabbricato. Questo mulino è stato restaurato esternamente grazie al
progetto “Raffaello”, promosso nel periodo 1997-2000, un
programma della Commissione Europea per sostenere l’ereditÃ
culturale nella comunità .
I principali obbiettivi del progetto erano di
restaurare quattro mulini ad acqua ed il loro ambiente naturale in
Francia, Inghilterra, Italia e Slovenia ed inoltre confrontare e
scambiare le esperienze tecniche e le conoscenze. Sulla spianata
antistante la ruota, oltre il ponticello in legno, sui fianchi del
corso d’acqua è presente l’antico lavatoio sul quale,
inginocchiandosi a terra, le donne del paese si ritrovavano per
lavare i panni facendosi compagnia a vicenda.
Sul bordo orientale della moderna tettoia
ondulata, sotto uno splendido albero di noce, si può osservare una
vecchia macina costituita da un conglomerato di roccia naturale. Poco
oltre, nella stessa direzione, si profila il mulino dei
Pinza, di cui si sa che esisteva già nel 1810, per la
presenza di un documento che fa riferimento ad una divisione avvenuta
proprio in quell’anno; in realtà si tratta di due stabili distinti
ognuno dei quali possedeva in passato due ruote. Il mulino dei
Pinza vero e proprio, che conserva al suo interno le due macine
per il mais ed il trapano della fucina da fabbro realizzata
all’interno del mulino stesso dopo la seconda guerra mondiale, è
contraddistinto dal civico 481, mentre al civico 482 corrisponde il
mulino che nel 1903 risultava essere di proprietà di Zanella
in Loda Gaspare.
E
ntrambi
i mulini cessarono l’attività negli anni ‘50 e quello di Zanella
in Loda manca proprio di ogni attrezzatura. Sul lato sud vi era un
altro edificio, di cui sono rinvenibili solo le tracce dei muri
perimetrali, di proprietà di Da Pra Costantino fu
Giovanni, utilizzato come “gualchiera” (follo da panni),
per la follatura dei tessuti (i tre opifici si possono osservare
insieme in una foto d’epoca riportata su uno dei pannelli
informativi posti sotto la tettoia ondulata).
Riprendiamo il nostro itinerario dal mulino “Da
Pra e Calligaro”, affiancandolo per la sua lunghezza per
giungere, saliti alcuni gradini in pietra, di fronte al mulino, oggi
di proprietà “Del Favero” (civico 541), che fu l’ultimo negli
anni ‘80 a cessare l’attività . Molto probabilmente esisteva giÃ
nel 1700, infatti è stata ritrovata una tavoletta votiva donata per
«grazia ricevuta da Baldassare de fu Gerolamo De Mejo li 8 agosto
1764» dove appare un mulino con tre ruote lignee che potrebbe essere
quello di “Del Favero” (vedi piccolo pannello
informativo). All’interno tutto è rimasto uguale a com’era
nell’ultimo giorno lavorativo. Il mulino inizialmente possedeva tre
ruote idrauliche, le quali azionavano due macine da grano ed un
pilaorzo, che nel 1943 furono sostituite da una turbina Pelton ad
asse verticale, posizionata in un pozzetto sotto il pavimento, con
due getti anche se nel progetto ne risultano effettivamente tre. Al
primo piano dell’opificio, invece, tra gli anni 1920 - 1945, venne
collocata una piccola tessitura a conduzione familiare per stoffe
pesanti “caracul”.
L
a
centrale di Leo ...: continuando il sentiero si giunge al
lavatoio con tetto di copertura; qui, a differenza del precedente
lavatoio, le donne potevano lavare in piedi. A fianco di quest’ultimo
si trova la “officina di produzione di energia elettrica” (civico
542) di Leo Baldovin Carulli, costruita ed entrata
in funzione nel 1926 con un primo gruppo turbina-alternatore, cui ne
seguì un secondo nel 1929 e che forniva sul territorio lozzese, fino
a pochi anni fa, circa 280 utenze (uso famigliare + usi diversi).
All’interno sono visibili due turbine Pelton con i corrispettivi
alternatori e regolatori di velocità . La centrale funziona con il
flusso d’acqua convogliato da una conduttura di 662,35 metri che
trae origine dalla diga di sbarramento, edificata anch’essa nel
1926, nella parte alta del paese (sopra l’abitato), sfruttando un
salto dell’acqua di circa 70 metri.
Una prima centrale idroelettrica, sempre ad opera
della ditta dei F.lli Baldovin Carulli, venne
costruita nel 1915 in fondo al paese, in località Ronzie.
Purtroppo l’alluvione del 1966 creò seri danni sia allo
sbarramento che alla conduttura, sostituita poi quasi interamente,
costringendo all’inattività la centrale fino alla fine di giugno
dell’anno successivo, mese in cui venne ripristinato il servizio di
erogazione dell’energia elettrica per tutto il paese; per fortuna,
nonostante questa catastrofe, la zona dei mulini non ricevette danni
irreparabili. Dalla centrale di Leo si prosegue lungo la stradina
asfaltata che in breve si affaccia su via Da Rin, di fronte all’ex
casa Barnabò, ora De Meio Burighela
(civico 533), nella borgata Pròu. Sulla parete di questa abitazione,
orientata a sud, è possibile osservare una meridiana che segna le
ore della mattinata ( la campanella indica appunto il mezzogiorno),
mentre sulla facciata della casa retrostante (civico 552), orientata
ad ovest, è presente una seconda meridiana che indica le ore
pomeridiane.
S
cendendo
poi verso il centro del paese, lungo via Da Rin, allontanandosi pian
piano dalla borgata più conservativa di Lozzo (in termini
architettonici), si possono ammirare alcune antiche case,
riconoscibili ad una prima occhiata per la loro affascinante
diversità . Innanzitutto sono costituite per la maggior parte in
legno, le scale che collegano i diversi piani sono esterne e, se si
alza lo sguardo, si scorge la soffitta aperta perché in questo luogo
venivano portate e poi appese, dopo essere state legate assieme, le
pannocchie di grano turco affinché terminassero di maturare. E’
possibile anche fermarsi ad osservare l’ex casa Zanetti,
(posta sulla destra per chi scende) all’inizio della via P. Marino,
importante perché segnò l’estremo limite superiore dell’incendio
che, divampato la notte del 15 settembre, danneggiò 160 edifici,
lasciò 143 famiglie senza tetto e imprigionò due poveri coniugi con
una loro figlia, non ancora ventenne, nella casa attigua al fienile,
al principio del paese, che non si sa come prese fuoco. Ecco il
motivo per cui, sulla parete a sud, rimane ancora oggi, come
ringraziamento, un’immagine religiosa raffigurante la vergine, fino
a pochi anni fa sempre illuminata. A questo punto, per ritornare in
piazza IV Novembre si può percorrere via P. Marino ed eventualmente
visitare il Museo della Latteria.
L
a
ricerca storiografica e l’elaborazione dei contenuti è stata
realizzata da Giulia Larese. Fonti consultate: Dott.
Arch. Caterina Dal Mas, La roggia dei mulini lungo il Rio Rin a Lozzo
di Cadore, Pieve 2006; Tesi di laurea in architettura, anno accad.
1996-1997, Caterina Dal Mas e Carla De Angelis: “Cadore: museo e
territorio”; Vari, WAVE (Water, Acqua, Voda, Eau), Progetto
Raffaello, Mulini pre-industriali in europa, CD ROM Comunità Montana
Centro Cadore 2000.
12.
Commenti
Posta un commento